‘Una come lei non può essere una come me’. È stata la prima cosa che ho pensato, la prima volta che l’ho vista, alla prima lezione del corso. E ho continuato a pensarlo per mesi, mentre la spiavo senza farmi vedere.
Si sedeva sempre allo stesso posto, in terza fila. Era una tipa precisina, si capiva: tirava fuori un piccolo quaderno, un piccolo astuccio, un piccolo ipad. Posizionava il telefono di traverso e lo vedevo illuminarsi continuamente per tutti i messaggi che riceveva. Chissà che vita interessante aveva una così, chissà quante persone le scrivevano e quante persone la cercavano. Chissà a quante feste andava. Chissà quanti fidanzati aveva.
Quando il professore iniziava a parlare, lei si metteva a scrivere, fitto fitto, si appoggiava tutta su un gomito, con una mano che raccoglieva i capelli color cioccolata e l’altra che scriveva e scriveva. Ho cominciato a osservarla da lontano, non sono una che si siede sulle prime file io. Ho più una vita da ultima fila. Da anfibi e capelli corti. Da jeans strappati e piercing.
Ma lei mi attirava come una sirena. Così ho cominciato ad avanzare lentamente, una fila alla volta. Non faceva niente di speciale, ma guardarla mi sembrava la cosa più interessante che potessi fare e in 3 mesi di corso non ho preso un appunto.
Era la persona più sensuale che avessi mai visto, anche se non aveva niente di particolare. Non era una di quelle ragazze che ti volti a guardare per strada, una che ha gli occhi verdi, o i capelli biondi o le gambe chilometriche. Era castana, alta normale, magra normale. Eppure era come se il suo corpo fosse ricoperto di una glassa: guardarla mi faceva venire l’acquolina in bocca e qualsiasi cosa facesse aveva la qualità della seduzione. Da come si stringeva i capelli dietro il collo, a come si piegava a parlare con il suo vicino.
La osservavo per lo più stando dietro di lei ed avevo imparato ad amare il profilo delle sue labbra carnose, la curva un po’ impertinente del suo naso all’insù, a riconoscere i piccoli braccialetti che le ornavano i polsi sottili e a spiare il segno del reggiseno sotto le magliette che si facevano via via più leggere, man mano che ci avvicinavamo alla stagione più calda. Poi un giorno, durante la mia consueta attività di ricognizione della sua figura, mi sono resa conto che la linea dell’elastico non c’era: la stoffa si appoggiava leggera e intatta sulla sua pelle chiara, senza grinze e senza intoppi. Da allora e per qualche lezione quello fu il mio nuovo gioco, scoprire se aveva il reggiseno o no.
Poi un giorno mi sono dimenticata il casco in classe e quando sono tornata dentro per prenderlo ho sentito il cuore sbalzarmi in bocca. Lei era lì, vicina alla porta, con i libri in mano che parlava con il professore, che lo guardava con i suoi occhi da cerbiatta. Ho fatto i gradoni dell’aula a quattro a quattro, mi sembrava di averli sorpresi in una situazione compromettente anche se stavano solo parlando. Ho afferrato il casco al volo e sono ridiscesa.
‘Scusate’ Ho bofonchiato in maniera inaudibile mentre passavo in mezzo a loro che adesso stavano proprio sulla porta e ho sentito qualcosa tirarmi la manica. Ho sollevato la mano e ho visto uno dei suoi minuscoli braccialetti incastrato nella mia maglia.
Credo di essere diventata viola, mentre lei si lanciava in una serie di ‘oh no!’ e di ‘scusa’. Aveva una voce bassa, quasi un po’ mascolina, una voce che difficilmente avrei associato al suo corpo sinuoso.
Non sapevo bene cosa fare: il casco mi impediva, la sua vicinanza mi inebriava. Il professore era visibilmente scocciato dall’interruzione, ma c’era poco da fare, eravamo unite e dovevamo in qualche modo slegarci. Ho appoggiato il casco per terra, tra i miei piedi, mi sono risollevata e mi sono tolta il maglione. Indossavo una maglietta e un reggiseno sportivo che faceva capolino dal collo della maglia e l’ho sentita trattenere il respiro di fianco a me. Ho cominciato ad armeggiare con la chiusura del bracciale e il filo della maglia, ma le cose non sembravano migliorare molto. Il professore, a malincuore, si è allontanato, non senza averle ricordato gli orari di ricevimento e il numero del suo studio.
‘Andiamo dove c’è più luce.’ Ha detto lei e mi ha trascinata di nuovo dentro l’aula. La sua vicinanza stava iniziando a darmi alla testa, l’eccitazione mi affannava il respiro e mi paralizzava le dita. Le nostre teste erano vicinissime e potevo vedere la sagoma delle sue labbra a pochi centimetri dalla mia bocca. Volevo togliermi di torno il prima possibile o non so cosa avrei fatto. Ho armeggiato ancora una volta con il filo e il gancio, poi ‘fanculo!’ mi sono detta e ho strappato il filo.
Il mio corpo ha avuto un piccolo moto all’indietro e come in un sogno ho visto il suo seguire il mio, le sue labbra incollarsi alle mie. Ho avuto un sussulto, ma lei non si è staccata da me, e quel primo bacio è diventato un bacio lunghissimo, mentre la sua lingua si faceva strada nella mia bocca e io andavo in fiamme.
‘Non pensavo che una come te fosse una come me.’ Ha detto lei quando si è staccata da me, dando voce esattamente ai mie pensieri.
‘Vieni in bagno con me.’ Le ho risposto io. ‘Voglio vedere se oggi hai messo il reggiseno.’ Lei ha riso, si è portata una mano alla maglietta e ha iniziato a sollevarla lentamente. A scoprire la sua pelle, sempre più chiara e sempre più tenera. Poi bruscamente ha abbassato tutto e mi ha preso per mano.
‘Andiamo in bagno, hai ragione.’ Ha detto mentre i primi studenti iniziavano a entrare. Ho lanciato un ultimo sguardo all’aula, prima di uscire. Ho cercato di imprimerla nella mia memoria, così com’era, quel primo pomeriggio di inizio estate.