Questa storia erotica porta la firma di Alessia Cattelan di Blondemind, che ha cominciato a scrivere quasi per gioco e poi ci ha preso gusto. Per fortuna.
La lingua scivola lenta sul labbro inferiore, costretto tra i denti, in cerca di quel sapore di whisky torbato misto a nicotina. Un riflesso condizionato per poter gustare quell’istante in cui le nostre bocche si sono cercate. Ogni volta che questo gesto diventa consapevole la mano scivola sino a coprire il naso, quasi a creare una mascherina, in cerca del tuo profumo ormai sbiadito sulle dita. La mente ricorda ciò che la pelle ha cancellato: lo shock olfattivo di un trompe l’oeil cerebrale, così intenso da farmi chiudere gli occhi in un flash back emozionale.
Sono le otto della mattina, il cuscino è ancora impresso sulla mia guancia e necessiterei di un caffè, eppure i piedi sfidano il freddo del marmo e mi portano davanti alla vetrinetta dei liquori.
Allungo la mano alla cieca, ma il tatto è un alleato formidabile: tra una bottiglia bombata e una affusolata trovo lei, quella di Lagavulin invecchiato dodici anni. Apro e ne inalo avida l’essenza, ne lascio scivolare qualche goccia sulle dita che passo rapida sulle labbra.
Sono sedotta e la voglia di te mi rapisce.
Mi abbandono sul matellasé del Chesterfield amaranto, con un bicchiere di droga in mano. La voglia cresce.
Arruffo la seta avorio della camicia da notte sino a lasciare il pube scoperto. Scivolo sul divano obbligandomi a spiegare le gambe sul bracciolo. Le apro, intingo le dita nel whisky e poi dentro di me sino a cercare il piacere, che arriva veloce. Mi coglie mentre ti immagino dentro me, io che nudo non ti ho visto mai. Sudata e ansimante, rintingo le dita nel distillato e le succhio per assaporare quello che è diventato il sapore del piacere. Anche questa mattina abbiamo fatto l’amore, anche questa mattina mi hai fatto godere. Chissà come sarebbe stringerti tra le cosce. Scoprire la sensazione della tua giovane pelle a contatto con la mia.
Sì, anche oggi non ti chiamo. Non posso chiamarti. Tu non lo fai. Io non posso farlo. È l’anagrafe che ci separa. Prima di quella sera non mi ero posta la domanda o non volevo farmela, rapita dai tuoi occhi caldi come la cioccolata d’inverno. Frastornata dalla facilità di far tuo il mio idioma, dall’ingombranza della tua figura snella ma imponente. Ipnotizzata dal suono dei metalli ai tuoi polsi.
Perché fare una domanda scomoda? Perché scoprire una differenza che mi avrebbe messa a disagio. Meglio non sapere per accettare il tuo invito a cena.
Ho sperato che nel momento in cui ti avessi rivisto l’incantesimo si sarebbe interrotto, convita che le bollicine avessero amplificato e idealizzato il sapore di quella serata fatta di leggerezza in cui ci siamo conosciuti.
Stupida me. E mi ritrovo lì ad aspettarti davanti al ristorante.
Il tintinnio dei tuoi bracciali perfora l’aria fredda per arrivare dritto alle mie sinapsi. Abbandono l’iPhone e ti guardo avanzare nella nebbia. Stupida me.
Ti bacerei ancor prima che tu possa proferire parola. Stupida me.
Cerco di attivare tutte le barriere difensive, prendere le distanze e darmi un tono. Sono una donna. Almeno credo.
Mi sento impacciata come la prima volta che sono uscita con un ragazzino.
Se la partenza è stata zoppicante, il prosieguo mi vede arrancare. Il tavolo tra noi? Una benedizione. Il vino? Pessimo compagno.
Non dichiariamo la nostra età, potresti avere tra i trenta e quarant’anni, solo i tuoi aneddoti mi fanno intuire che le mie paure sono fondate. La distanza non è così colossale, eppure mi pare una vita. Per la prima volta mi percepisco una donna vecchia. Di solito sono “la bambina” della situazione, come ci si muove nella situazione opposta? Non conosco le regole.
E tu che cosa ci fai lì con me? Anche tu abbagliato dai fumi dell’alcool di quel primo incontro? Ti stai pentendo ogni minuto che passa? Eppure sembri star bene. Ci piacciono le stesse cose, ordiniamo le stesse cose.
Il caso ha la precisione di un tagliatore di diamanti grezzi.
Preferisci ascoltare, piuttosto che parlare di te. Sono sorpresa dalla tua capacità di ricordare tutto ciò che ti avevo raccontato. C’era gente, eri stanco. Ricordi. Mi hai ascoltata.
È una tortura mantenere le distanze. Sei un aguzzino sapiente.
Arriva il conto e penso che finalmente potrò respirare regolarmente. Erro. Suggerisci un drink. La testa dice no, il corpo è già in seduto in macchina al tuo fianco. La cintura di sicurezza mi protegge, da te.
Scegliamo un posto, a caso. Attorno a noi donne sulle scarpe basse e uomini sui tacchi a spillo. Un segno? Il mondo si può capovolgere e noi con esso? Mi sento sollevata, forse tutto questo non è così sbagliato e segue una sintassi a me sconosciuta. Svelo l’arcano, ora sai quanto tempo ci divide. Immagino la delusione mentre ti avvicini con due bicchieri bassi. Anche questa volta hai ascoltato. Whisky. Barricato, come piace a me. Sei un uomo ben educato o il nuovo Casanova. Sono determinata a resistere, potrei essere tua sorella.
Le lancette corrono e io fermerei il tempo, ma quello, avaro, non concede proroghe è ora di tornare a casa. Di nuovo troppo vicini, ancora separati dalle protezioni dell’auto. Ci siamo, sono stata brava e a debita distanza. Pochi secondi e passerà la paura. Inizio a iperventilare nell’attesa dei saluti.
So che a breve i nostri volti saranno troppo vicini, i sensi si accenderanno, inaleremo i nostri timori e le nostre voglie. So che posso barcollare, ma non mollare.
Ci siamo. Le distanze si annullano.
Sei uomo. Tra la prima e la seconda guancia fai in modo che le labbra si sfiorino, dichiarando apertamente ma elegantemente le tue intenzioni. Non neghiamolo, speravo lo facessi. Anche il tuo gusto è perfetto. Dolce e profondo. Amabile, ma intenso. Le lingue si intrecciano, le mani si perdono nei tuoi capelli, le dita disegnano i tuoi profili.
Perché mi baci? Meglio non chiederlo. Meglio vivere. Baciami ancora. Fatti respirare.
Le cinture ci trattengono. La voglia di liberarsi è palpabile, ma non ti spingi più in là, come un vero gentiluomo. Con la macchina blocchiamo l’entrata del portone di casa mia. Un vicino indispettito fa le luci. Come non capirlo? Ha finito ora di lavorare.
Ti lascio frettolosa come Cenerentola allo scoccare della mezzanotte. Sgattaiolo al sicuro senza voltarmi. Serro l’imbarazzo dietro la terza mandata di chiavi e per qualche minuto mi abbandono con le spalle sul legno antico dell’entrata per prendere fiato.
È da quella sera che immagino il tuo corpo nudo. È glabro come quello di un fanciullo o lascia spazio al tuo sangue latino. Sai ascoltare solo le parole o anche i desideri? Le tue mani affusolate sanno afferrare e far sentir protette? Sei capace di far sentir me piccola tra le tue braccia?
Annuso di nuovo il whisky. Ti telefono?
Forse domani.
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