Ha dormito male e si sveglia di cattivo umore. Il braccio è ancora dolorante per la caduta, l’abbraccio stretto del tutore le irrita la pelle. Un mese e oltre di insopportabile fastidio le si prospetta davanti. Gli antidolorifici che ha preso la sera prima le hanno lasciato la bocca amara e il sonno gliel’ha impastata ancora di più.
Lui dorme profondamente e anche questo la irrita, anche se lui non ha nessuna colpa, si capisce. Si massaggia il collo con la mano libera, si alza e va in cucina a farsi un caffè. Fuori è una giornata uggiosa, va tutto storto, pensa dentro di sé. Sente un accenno di mal di testa insinuarsi nella tempia sinistra, ci mancava solo questa. Passa in bagno. Lavarsi i denti con la mano sinistra è un’impresa così inutile che ben presto ci rinuncia. Il box della doccia le appare una fucina di pericoli: il trauma della caduta l’ha lasciata scossa, insicura sulle proprie gambe. Ma ieri sera il sonno artificiale l’ha messa fuori combattimento prima che potesse fare qualsiasi cosa e l’idea di tutte quelle ore passate in ospedale rendono la doccia una necessità.
Decide di ridurre al minimo i rischi e infila uno sgabello di plastica nel box. Si aggancia la maglietta con un dito dietro il collo e cerca di togliersela come fanno i giocatori dopo le partite, ma finisce in un labirinto di stoffa che la fa sentire dentro una camicia di forza; il gesto che fa per uscirne le strappa un movimento sconnesso col braccio ferito e un gemito di dolore. Esasperata, si sfila gli slip e si infila nella doccia. Si siede sullo sgabello e mentre fa scorrere l’acqua sente le lacrime riempirle gli occhi; sa benissimo che è sciocco, ma non può farci niente, il dolore, la stanchezza e la frustrazione le hanno sempre fatto quell’effetto, di tirarle fuori un pianto stizzito, rabbioso, che a sua volta le genera un circolo di pensieri patetici. Eccola lì, una donna di mezza età, una che bella non è stata mai e adesso non è più nemmeno giovane, una che dalla vita non ha avuto nulla, se non mediocrità, mediocrità nell’amore, mediocrità nel lavoro… e adesso è anche ridicola, con quel braccio rotto, quel tutore che lo fa sembrare ancora più sgraziato, e la prospettiva di avere capelli unti e alito pesante per i prossimi 30 giorni.
Sente la porta scorrevole della doccia aprirsi e dietro il velo delle lacrime lo vede entrare, nudo.
‘Dai che ti aiuto.’ Dice.
Con gesti che le appaiono così coordinati apre il getto del soffione, se lo passa su una mano e con quella le pulisce le lacrime, le accarezza gli occhi gonfi e stanchi.
‘Vuoi lavare anche i capelli?’
Lei annuisce, consapevole del broncio che le increspa le labbra ma incapace di spianarlo, come quando era bambina e faticava a dimenticare l’offesa.
‘Allora girati e vieni indietro con la testa.’
Lei ubbidisce, spostando un po’ il seggiolino di plastica. Lui le guida la mano sana a prendere la maniglia. Lei si sbilancia all’indietro con il busto, tenendo sollevato il braccio offeso.
Il tocco delle sue mani sulla testa è la prima esperienza piacevole dopo quasi 24 ore di dolore e le manda una scarica lungo la schiena. Dimenticando il pessimo umore, lascia uscire un piccolo mugolio di assenso. Lo sente sorridere dietro di sé, mentre con le mani comincia a disegnare cerchi regolari sul suo cranio, a soffermarsi e a spingere in alcuni punti. Lei sente le spalle abbassarsi di qualche centimetro e solo ora realizza di averle avute in tensione per tutto quel tempo.
‘Vieni un po’ indietro che ti sciacquo.’
Solleva di nuovo il braccio che aveva rilassato nel frattempo e stringe con forza la maniglia, prima di protendersi all’indietro. La carezza morbida dell’acqua è quasi piacevole come il suo tocco e lui fa attenzione che nemmeno una goccia le finisca negli occhi o nelle orecchie. Chiude il getto di nuovo.
‘Prendo un asciugamano.’
Dice mentre apre la porta della doccia. Lei si gira per riprendere la posizione iniziale, di fronte a lui, ancora un po’ persa nella piacevolezza di quell’esperienza, e rimane di sasso quando lui rientra con l’asciugamano e un’inequivocabile, evidentissima erezione. Per un attimo non riesce a staccare gli occhi da quel membro dritto e turgido, da quanto tempo è che non lo vede così?
Mesi?
Anni?
Quand’è stata l’ultima volta che l’avevano fatto, ma fatto davvero, non quelle trascurabili parentesi, quando lui era abbastanza ubriaco per essere eccitato ma anche per avere le capacità amatorie irrimediabilmente compromesse dall’alcol?
Anni, decisamente.
Come lui prima con le sue lacrime, anche lei decide di ignorare l’evidenza, ma il sapore dolce della lusinga le ammorbidisce le labbra.
Lui le avvolge i capelli con l’asciugamano e ancora una volta lei è sorpresa dalla destrezza dei suoi movimenti. La sua erezione è a pochi centimetri dal suo viso, ma decide di tenere gli occhi bassi.
Lui riapre l’acqua
‘Alza il braccio adesso.’ Le dice.
E c’è una nota perentoria nella sua voce, come se invece di un’istruzione, le avesse dato un ordine.
Lui le passa l’acqua su tutto il corpo, con una mano le allarga le gambe e lei trattiene il fiato. Il getto d’acqua che lui indirizza sul suo sesso le provoca un’altra scarica di piacere, e si rende conto di essere eccitata. Lui chiude l’acqua, come aveva fatto prima di lavarle i capelli, e con gli stessi gesti accurati, non troppo lenti e non troppo veloci, si versa il sapone sulle mani e poi se le strofina tra di loro, meticoloso. La guarda intentamente e lei si sente fremere sotto quello sguardo così deciso. Quand’è stata l’ultima volta che si sono guardati davvero?
I suoi occhi marroni la salutano come un’amica dopo lungo tempo ritrovata.
Il contatto delle sue mani sulle spalle le provoca un altro brivido e questa volta non è in grado di contenerlo: tutto il suo corpo si scuote sotto il suo tocco. Lui sembra non notarlo. Le passa le mani sulle spalle e sul braccio libero, glielo solleva per insaponarle l’ascella (lei ridacchia e sente lo spazio tra le sopracciglia appianarsi), le massaggia i seni con gesti energici, che non hanno nulla di sensuale, ma i suoi capezzoli si inturgidiscono lo stesso. Scende sul ventre, sulle cosce. Lei non osa guardare, il suo corpo le è sempre apparso sgraziato, ma chiude gli occhi e si abbandona al vetro del box. Lo sente separarle le gambe (un altro sospiro le sfugge), distribuire il sapone su tutta la superficie, anche dove la carne si fa più delicata e sensibile. Anticipa, affamata il momento in cui le sue mani arriveranno finalmente al sesso, ma lo sente scendere verso il ginocchio, lungo il polpaccio, prenderle un piede in mano e poi un’altro, lavarla con cura in tutti gli interstizi. Poi le sue mani, finalmente, lentissimamente, cominciano a risalire. La qualità del suo tocco è cambiata adesso (lei continua a tenere gli occhi chiusi, il respiro è spezzato), le sue dita affondano avide nella sua carne. Quando arriva al suo sesso, la strofina e lei lascia uscire un gemito. Lui si interrompe. Passa un attimo interminabile, in cui lei non capisce: cosa succede adesso? Il rumore e poi il calore dall’acqua sono la sola risposta alla sua domanda. La sta sciacquando, sempre con quella cura maniacale che adesso inizia a darle sui nervi.
E l’insicurezza si risolleva battagliera dentro di lei. Era tutto un’illusione? Poi l’acqua cessa di nuovo e il tono perentorio è inequivocabile quando le dice ‘Alzati’. Lei apre gli occhi e si solleva. Possibile che sia finito tutto qui? Lo vede prendere lo sgabello e portarlo sotto di sé. Lo vede sedersi, la sua erezione è sempre lì, più gonfia di prima se possibile. Lo vede allungare le braccia verso di lei e sente la stretta forte delle sue mani sui suoi fianchi. Le segue docile mentre l’attira a sé, mentre la fa sedere su di lui. Lo sente entrare dentro di sé, finalmente. Appoggia il braccio ferito delicatamente sulla sua spalla e si abbandona ad assaporare quel contatto, finalmente.
Sono di nuovo insieme, e il mondo ha di nuovo senso. Finalmente