La serie erotica più amata dai nostri lettori continua qui. Laura è pronta a tutto pur di compiacere il suo amante, persino ad abdicare alla propria volontà. Scopri tutti gli episodi su Volonté e altri raffinati racconti di Inachis Io su direfarelamore.
5. Sarò la tua volontà
Io lo chiamo “il click”. È come un bottone che c’è dentro la mente, quando scatta non ho più freni e nessuna paura. Come un colpo di stato interiore, la capitolazione della mia volontà.
Credo di aver sentito “click” quanto mi hai toccato davanti ai due, l’ho riconosciuto bene quel cedimento. Lo stesso per esempio che mi ha fatto fare l’amore la prima volta con Enrico, in un locale pubblico, nel pieno di una festa di amici.
Ho sentito che il bacio che ci stavamo dando non mi bastava più, l’ho trascinato in cucina sotto lo sguardo stupito di un cuoco grasso e rubizzo. Senza dare spiegazioni ho attraversato il piccolo locale, caldo e saturo di fumi, l’ho spinto nella prima stanza che ho trovato (la dispensa, sapeva di verdura e legumi) e gli ho detto: “Adesso mi scopi qui, subito”.
Quando siamo passati nuovamente per la cucina, pochi minuti dopo, il cuoco è scoppiato a ridere e ci ha fatto assaggiare la crema che stava preparando.
Scattato il “click” ho anche fretta di salire al primo piano. Ti cammino davanti, inciampando spesso, urtando persone che per lo più si scusano con l’aria di non essere molto dispiaciute dell’impatto. Tu mi tieni le mani sulle spalle e ogni tanto mi aggiorni sulla situazione. La scala è circolare e pare piuttosto affollata di coppie che si baciano, di capannelli di persone. Quando arriviamo in cima mi descrivi una specie di terrazzo che si affaccia sulla discoteca da cui proveniamo e che si apre sugli altri lati su diverse stanze e corridoi.
– E poi? E poi? -, continuo a chiedere. – La gente com’è? Ci guardano?
Immagino che una donna bendata nella mani di un uomo possa non essere una novità assoluta in un posto così, ma debba comunque attirare l’attenzione.
Mi pare quasi di sentire gli sguardi sfiorarmi il corpo e illuminarsi di desiderio.
– Ci sono due ragazzi, molto giovani. Ti guardano. Uno ha i capelli cortissimi, la faccia abbronzata. L’altro è tarchiato, muscoloso. Mi ha appena fatto un cenno.
– Che cenno?
– Credo si stiano offrendo di metterti in mezzo a loro due.
“Se me lo chiederai, lo farò”, penso.
– Ma ho rifiutato. Possiamo trovare di meglio -, decidi.
– Voglio che esploriamo tutto.
E “tutto” è un dedalo di corridoi e anfratti.
– È quasi buio -, mi dici.
Io rido:
– Ben ti sta, per me è uguale.
Più ci addentriamo, più sembra che l’aria si desaturi di ossigeno e aumenti di temperatura, umidità, odori. Svoltiamo più volte a destra e a sinistra lungo uno stretto corridoio.
C’è puzza di chiuso e di disinfettante, alleggerita ogni due o tre metri dal respiro della bocchetta di un condizionatore.
Sento mani sfiorarmi, mi pare di nuotare tra le meduse. Non riesco a cogliere il criterio con il quale ogni tanto ti fermi: se mi stai mostrando a qualcuno o se sei tu che vuoi osservare qualcosa.
In una di queste pause mi dici all’orecchio:
– Ascolta.
Tendo l’udito ma non sento nulla di strano. Qui la musica è più bassa ma in compenso c’è più brusio, un tappeto sonoro che fa l’effetto di una nebbia. Poi colgo un lamento farsi strada.
Rido, perché mi viene in mente la scena di un film in cui un treno solca una pianura brumosa suonando di tanto in tanto la sirena.
Il lamento cresce, si fa affannato. È una donna che sta godendo. In tono più basso sento anche in controcanto l’ansimare di un uomo, forse di due. Ma è il gemito della donna che mi attrae, lo seguo come un filo, lo sento incresparsi, gonfiarsi, ritrarsi nei polmoni, e poi rovesciarsi in gola ad ondate sempre più piene, per esplodere infine nel cubicolo saturo con un urlo non trattenuto. Un grido di libertà, un’onda che attraversa lo spazio e risuona nei corpi dei presenti.
Sentire una donna godere è per me una delle esperienze più emozionanti. Mi identifico, quasi godessi io attraverso di lei e lei incarnasse, come una controfigura, le mie fantasie.
Sarei capace di lasciarmi andare come quella donna? Certamente lo vorrei, ma mi stai già portando altrove.
Non ti ho ancora toccato, ora che ci penso. Ti stai occupando di me, mi guidi, mi ecciti, mi dai piacere ma non mi permetti di ricambiare se non superficialmente attraverso qualche strusciamento.
È un disegno, il tuo? Una progressione?
Ammetto a me stessa che non ti facevo capace di reggere così a lungo il gioco. Ti immaginavo capitolare di punto in bianco e trascinarmi su qualche letto semi nascosto.
Devo ricredermi, a quanto pare, perché mi hai appena comunicato di aver scoperto una stanza speciale e di volermela fare sperimentare.
– Com’è? – chiedo prudente.
– È una specie di salotto ottocentesco, broccato rosso alle pareti, luci soffuse. C’è un divano di pelle rossa al centro.
– Elegante.
– Molto. Ma c’è una particolarità.
– Ecco.
– Una parete è completamente di vetro, come una grande finestra. Chi è fuori può vedere tutto ciò che succede dentro.
Vorrei fare un regalo al nostro pubblico.
Mentre lo dici sento la tua mano sulla mia spalla, una piccola spinta. Facciamo pochi passi. Istintivamente allungo le mani in avanti. Sotto i piedi la sensazione di un tappeto morbido. I suoni improvvisamente ovattati. Il rumore della porta che si chiude con un click. Ancora quel click, nelle orecchie e nella mente.
Ti metti alle mie spalle e mi descrivi da capo la stanza.
Ma stavolta ci sono dentro e ogni cosa si fa reale. Mi fai toccare il divanetto, sento le pieghe della pelle, la immagino usata, consunta, come se ora potesse raccontarmi le storie di chi ci è passato.
– Voglio che tu faccia qualcosa per me -, dici. – Dopo avrai una ricompensa.
– Tutto quello che mi chiedi. Ti ho affidatola mia dignità, il mio pudore, il mio piacere.
Rispondo deglutendo, e a quanto sembra la risposta per te è sufficiente.
Mi prendi per mano, due passi e sento che siamo arrivati vicini a una parete.
– Allunga le mani.
Eseguo e subito sento il vetro. È liscio, freddo. Senza bisogno che tu aggiunga altro, quasi stessi entrando in una parte, appoggio i palmi, li tengo premuti fino a quando non sento il vetro scaldarsi.
Immagini mi affollano la mente. So, perché me lo hai detto, che è una vetrata ampia.
So, perché non solo lo hai detto ma lo hai sottolineato, che oltre quel vetro altre persone ci guardano. Un brivido mi percorre la schiena, senza pensare apro appena le gambe, spingo il sedere indietro.
Sento il tuo respiro. Hai colto il mio movimento e hai trattenuto il fiato. Questo mi fa sentire potente. Al tempo stesso, completamente arresa e offerta a sguardi sconosciuti.
– Spogliati -, ordini.
Non manca molto per esaudirti, ma sfilarsi il vestito senza sapere chi mi stia osservando non è facile. Mi chiedo se siano uomini, o coppie. Te lo chiedo.
– Diciamo che hai un pubblico piuttosto variegato e partecipe. – E ti immagino sorridere mentre lo dici.
– Ora il reggiseno -, continui, e con un gesto leggero me lo sfili.
Sono nuda.
Nonostante il vetro, che in qualche modo mi protegge, mi sento completamente esposta. Lo sono.
Forse lo capisci. Ti metti alle mie spalle e mi confidi un segreto.
– Ti ricordi quando ero in viaggio per lavoro a Roma, e ti avevo proposto di vederci? Tu eri entusiasta e avevamo già pianificato tutto.
– Ricordo. Poi, all’ultimo…
Sono nuda, esposta a degli uomini dietro un vetro. Evocare questo ricordo dal sapore triste non mi aiuta per niente. Vorrei rivestirmi, sedermi in un bar con te e parlarne.
Se proprio lo vuoi sapere lo trovo terribilmente indelicato da parte tua. Questo, ovviamente, quello che penso.
– Continua, per favore-, è invece quello che ti sussurro all’orecchio, guidata dalla fiducia che abbiamo costruito in questi mesi.
– All’ultimo ti avevo detto che non potevo. Non ti avevo dato spiegazioni, tu non ne avevi richieste. Sarebbe stato più esatto dire che non volevo; improvvisamente mi ero visualizzato la scena: una cena insieme in un posto elegante, una notte nella stanza del mio hotel. Avremmo fatto l’amore in modo straordinario, tutta la notte. Ci saremmo scoperti diversi da ciò che immaginavamo, più umani, finiti.
– Sì -, sussurro.
– Al mattino avremmo ucciso tutto il sogno con i nostri spazzolini da denti sul lavandino, con la coda al buffet della colazione e il “ciao” teso come un elastico quando avremmo imboccato il marciapiede davanti all’hotel in due direzioni opposte.
– Forse, ma…
– Io non ti voglio uccidere così, Laura.
Sto piangendo, di nuovo sto piangendo. Di nuovo le gambe a cercare la strada, la pancia a dire di restare. Sei tremendo. Mi scavi dentro come un chirurgo, hai inciso l’epidermide, il derma e scostato i fasci muscolari. Ora lavori dentro i miei organi, come se mi avessi davvero visto in ecografia, davvero mi conoscessi dall’interno.
È un pianto liberatorio che mi guarisce.
E infatti mi abbracci. E la tua stretta mi sorprende e mi calma.
C’è un’aria irreale e sospesa. Siamo fuori dal tempo e dallo spazio, in un luogo assurdo e estremo, che paradossalmente ora mi sembra…
– Casa? Ti porto a casa? -, chiedi premuroso.
Mi sembra casa questo privé sconosciuto. Mi sembrano casa le tue braccia e le tue parole. Mi sembri casa tu.
– No, va tutto bene, continua. Voglio fare quello che mi chiedi.
Tu hai sempre avuto un’intelligenza particolare delle mie emozioni. Anche nei momenti più difficili non sei mai scivolato in quella violenza dei buoni che è la compassione. Hai dato e preteso dignità.
Era fine marzo quando, sotto un temporale improvviso, uscivo dallo studio dell’avvocato dove avevo iniziato a parlare di divorzio. La morte dentro, la tempesta fuori, camminavo sul lungotevere senza nemmeno più cercare di ripararmi. Rispondevo male ai filippini che offrivano ombrelli e che la sera avrebbero proposto con insistenza rose davanti ai ristoranti. Avevo sentito trillare il messaggio senza pensare potesse essere tuo; erano diversi giorni che non ci scrivevamo e nemmeno ricordavo se ti avevo accennato dell’appuntamento. Avevo preso il telefono con rabbia, con il presentimento di un messaggio consolatorio e fastidioso.
Ora quel tuo sms mi torna in mente, completamente fuori contesto.
“Andiamo avanti. L’impossibile è possibile nel nostro giardino”.
Sapevi il giorno, e l’ora e le parole.
– Voglio andare avanti -, ti ripeto. L’impossibile è possibile.
– Nel nostro giardino -, concludi.
– Nel nostro giardino.
Non c’è bisogno di altri commenti. Mi hai operata, mi hai richiamata in vita. Proceda, dottore.
– Ecco cosa voglio che tu faccia per me… – dici come se niente fosse mentre prendi la mia mano e me la fai appoggiare in mezzo alle gambe.
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